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"C'è una regola per produrre neologissimi? No, non c'è; sono un fatto di ispirazione. Mentre i neologismi è facile farli, grecismi, latinismi, anglicismi, accoppiamenti di radici verbali eccetera, come tutti sanno. Forse per i neologissimi la regola è alzare lo sguardo, sbucare oltre la sfera della lingua corrente e attingere alla nube di Oort, serbatoio delle comete". (Ermanno Cavazzoni)
"Una serie di omonimi viene disposta in ordine significativo, in modo da costruire la sintesi di una breve narrazione della serie stessa generata ed illustrata. Poi (...è anche l'acronimo della 'struttura' di questa plaquette), dopo i sedici brevi componimenti, un essenziale dizionarietto omonimico riporta nuovamente le voci utilizzate insieme con i relativi significati".
"La tentazione era forte. Unire - o meglio mischiare, contaminare, forzare a improtestabile convivenza - i nostri patres maggiori, Dante e Petrarca. Intrecciare le radici della loro opera - e anche i rami - con uno sforzo d'intrico - più che non d'intreccio. Con esito doppiamente paradossale: si nota infatti come quasi tutti i versi, se letti uno per uno, senza appoggiarsi ad alcun contesto o senso, non abbiano perduto niente della loro splendida misura e paiano - e questa ne è una prova - assolutamente forti della propria autonomia poetica".
"Chi più, chi meno, ciascuno ha sempre qualcosa da confessare, e anche gli oplepiani non sfuggono a questa regola di vita. Certo nel loro caso si tratterà di peccati mortali, veniali o capitali, al più potranno essere originali: più verosimilmente potranno essere peccati di lingua, peccati linguistici, insomma, in quanto legati all'uso della lingua, parlata o scritta che sia. Gli oplepiani sono ben felici di riconoscere i propri peccatucci linguistici che per tutti loro costituiscono una sorta di dna letterario. O comunque una leggera mania distintiva".
"In un qualsiasi testo scritto in un'altrettanto qualsiasi lingua le varie lettere dell'alfabeto compaiono con frequenze differenti. È facile intuire che in italiano (e non solo) quasi tutte le vocali (a eccezione della 'u') sono molto più diffuse delle consonanti. [...] Da questi presupposti è nata l'idea di scrivere un racconto con la seguente restrizione: il testo non solo rispetta rigidamente la frequenza delle 'e' ma anche il loro posizionamento costante: nell'arco di tutto il testo dopo ogni 'e' ci sono infatti otto lettere e poi ancora una 'e' e così via in un più che regolare rimbalzo statistico".
"Sei sonnetti che s'immergono nel sonno. [...] L'assenza marca una crepa nel nastro compatto della lingua, un'impercettibile lacerazione, qualcosa che sulla soglia del sonno viene a mancare. E la mancanza non è sempre la stessa. Si sposta, fluttua da un 'sonnetto' all'altro, come una staffetta il cui testimone è un cuneo abraso, un piccolo vuoto vagamente inafferrabile".
"La tecnica del 'gioco dell'alfabeto raffigurato' richiama alla mente quella del 'technopaegnion' (in greco 'gioco d'arte'), artificio letterario che consiste nel comporre un testo, generalmente una poesia, la cui forma grafica rappresenta una determinata figura: una nave, una piramide, un pesce, un'ànfora, ecc. [...] Nel 'gioco dell'alfabeto raffigurato' la simbiosi fra sostanza linguistica e formazione iconica si realizza facendo in modo che ogni singola lettera diventi strumento iconico, immagine di se stessa".
"Il 'Solfeix' è basato sulla traslitterazione sillabica di una melodia prestabilita; ma, invece di attribuire un significato chiuso ad ogni serie di note - come faceva Soudre - o di mettere ogni nota in relazione ad una sillaba - come fanno i parolieri nelle canzoni -, si tratta di aggiungere un fascio di nuove sillabe tra i nomi delle note della melodia, avendo ben presente la durata di ogni nota. Il 'Solfeix' è, quindi, una costrizione aperta alla speculazione letteraria".
"L'avventuroso ritrovamento, in uno sgabuzzino murato del Palazzo di Recanati, di questi quindici tentativi di Infinito strutturati in tutte le salse metriche, con progressiva espansione dal balbettio monosillabico alla scandita ariosità del settenario doppio, ci permette finalmente di seguire passo dopo passo il percorso compiuto da Giacomo Leopardi per arrivare alla superba versione in endecasillabi sciolti che già possedevamo. Con tutta evidenza il poeta, affinché il canto apparisse come un fungo miracoloso cresciuto in una notte sola, cercò di cancellare ogni traccia di tutto il precedente lavorio. Invano, poiché i manoscritti preparatori son come l'olio della verità: prima o poi vengono a galla".
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