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Tigre reale è un romanzo in diciannove capitoli di Giovanni Verga, pubblicato per la prima volta dall'editore Brigola a Milano nel 1875. Giorgio La Ferlita, un giovane di carattere debole e volubile intento a costruirsi una carriera da ambasciatore, conosce a Firenze, durante un ballo a Pitti, Nata, una contessa russa malata di tubercolosi e ospite a Firenze per consiglio dei medici russi che la invitavano a prendere aria salubre mediterranea, e ne rimane attratto. Il giorno stesso in cui la conobbe, per via di un gesto apparentemente sciocco (egli fu invitato al ballo in sostituzione di un famoso spadaccino), accettò e vinse un duello. I due iniziano a frequentarsi con assiduità mantenendo però la loro relazione entro i limiti di una intensa amicizia. Nata non volle mai sbilanciarsi troppo con Giorgio per via di una forte delusione precedente, causa tra l'altro della tubercolosi che l'aveva fatta ammalare, che vide il suicidio dell'amante. La storia viene interrotta dall'annuncio della partenza di Giorgio per Lisbona e dall'arrivo del marito di Nata che la raggiunge per riportarla a casa. Nata scrive a Giorgio una lettera e gli promette che quando sentirà la morte vicina verrà a morire presso di lui e che nel frattempo vivrà nel suo amore. Trascorso un po' di tempo Giorgio si sposa con Erminia e durante la festa per celebrare la nascita del suo primo figlio viene a sapere dal dottor Rendona che Nata è sua ospite ai Bagni di Acireale e che i suoi giorni sono ormai contati, aggiungendo che tale sua paziente andrà ad assistere ad una rappresentazione straordinaria al Teatro Comunale, nonostante le sue gravi condizioni di salute. Giorgio, senza che la moglie ne sia a conoscenza, riprende a frequentare la contessa malata ma nel frattempo arriva Carlo, un cugino di Erminia, che un tempo era innamorato della donna e ne era ricambiato e i due rimangono nuovamente attratti l'un verso l'altro. Giorgio intanto continua ad assentarsi per andare a trovare la contessa e Carlo rimane molto vicino a Erminia che in lui trova conforto. Ma una notte il bambino di Giorgio ed Erminia rischia di morire e Carlo, mentre Giorgio è da Nata, conforta la cugina. Quando Giorgio fa rientro a casa, si rende conto che la situazione del figlio stava diventando grave e decide di non allontanarsi più né dalla moglie né dal piccolo. Giorgio vivrà questo ritorno nel senso di colpa e di rimorso nei confronti della moglie, ai suoi occhi pura e immeritevole del torto di un amore extraconiugale. Erminia prega Carlo di partire e dal dispiacere si ammala. Il medico di famiglia, il medesimo dottor Rendona, consigliava più volte il ricorso all'aria libera per far riprendere Erminia, suggerendo la tenuta di Giarre. Tuttavia Giorgio, per evitare in ogni modo qualsiasi possibile rimpianto di Nata visto che la strada per Giarre passa da Acireale, trovava mille scuse per evitare il viaggio. Una notte la donna, in preda ai deliri, confessa al marito di aver amato Carlo; Giorgio sentirà ancora più rispetto nei confronti della moglie per aver confessato prima di lui, il quale in lacrime la abbraccia. Al sentire e vedere le lacrime del marito la donna dice di sentirsi meglio. La crisi di Erminia passa e Giorgio, riunito alla sua famiglia e sereno, accetta di affrontare un viaggio a Giarre, per chiudere definitivamente col passato. Tuttavia alla stazione di Acireale il treno tarda a ripartire e l'uomo si sente crescer l'imbarazzo finché non si rende conto che sono fermi per via di una processione funebre che sta occupando un altro treno a loro parallelo, costituito da due sole carrozze: è il trasporto funebre di Nata che il marito riporta in patria.
Una peccatrice è un romanzo di Giovanni Verga pubblicato nel 1865. Pietro Brusio, un giovane di Catania, studente di legge e con passioni letterarie, si innamora perdutamente di una donna incontrata casualmente durante una passeggiata ai giardini pubblici della città. La donna si chiama Narcisa Valderi ed è la moglie del conte di Prato. Lei, però, non sembra accettare la corte assidua del giovane che, desideroso di riscattarsi, compone in breve tempo un dramma, il Gilberto, che lo rende subito celebre. Grazie alla notorietà ottenuta riesce a conquistare la donna, ora innamorata persa di lui. Ma dopo un periodo assai breve di grande felicità ed esaltazione Narcisa, resasi conto che il giovane inizia a stancarsi del suo ossessivo e sfrenato amore, decide di suicidarsi: si avvelena e muore in una villa di Acicastello dopo aver ascoltato un valzer (Il Bacio di Luigi Arditi) stretta al corpo di Pietro. Quest'ultimo, scioccato dal gesto estremo della donna, trascorrerà mediocremente il resto dei suoi giorni al suo paese natale scrivendo qualche verso per gli onomastici dei suoi parenti: Le splendide promesse del suo ingegno, che l'amore di un giorno aveva elevato sino al genio della sua anima fervente, erano cadute con quest'amore istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità, che strascina la vita nel suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo scarso suo patrimonio. Misteri del cuore!.
La Lupa La lupa è una novella di Giovanni Verga. Fu inclusa nella raccolta Vita dei campi e pubblicata presso Treves nel 1880. È molto interessante la tipologia del personaggio femminile che Verga dà a "La Lupa": una tipologia femminile molto diversa dagli altri personaggi femminili in altre novelle del Verga. È una donna quasi stregonesca e demoniaca con un'alta voracità sessuale: la protagonista infatti arriva ad adescare un giovanotto, che riesce a convincere a sposare la figlia solo per poterlo avere in casa con sé e poterlo sedurre in ogni momento. Il protagonista, esasperato dalle attenzioni della donna e dalla volontà di essere fedele alla moglie, arriverà a uccidere la donna. Il grande successo spinse Verga a ricavarne un dramma teatrale in un atto, con lo stesso titolo, che fu rappresentato per la prima volta al Teatro Gerbino di Torino il 26 gennaio 1896. Dal dramma verghiano sono stati tratti due film: uno La lupa del 1953 diretto da Alberto Lattuada; un altro del 1996 interpretato da Monica Guerritore, La lupa, per la regia di Gabriele Lavia. Altre opere tratte dalla novella sono: La lupa: (dalla tragedia omonima di G. Verga) / 3 atti di Vincenzo De Simone; per la musica di Santo Santonocito; La lupa: (dalla tragedia omonima di G. Verga) / riduzione in versi di Franco Pastore. La novella di Verga racconta di una donna che veniva chiamata "Lupa" perché non era sazia mai delle relazioni con gli uomini. Descrive molto bene la donna fisicamente occhi neri come il carbone, labbra rosse e carnose, seno vigoroso, alta, pallida e magra. Sua figlia Maricchia era triste per il comportamento della madre e sapeva che nessuno mai l'avrebbe presa in sposa anche se era bella e aveva buona dote. Tutte le donne del paese quando passava si facevano il segno della croce perché avevano paura che potesse portare via da loro i mariti solo con uno sguardo. Un giorno la Lupa si innamorò di Nanni, un ragazzo che era tornato da poco dal servizio militare e che lavorava nei campi. La lupa una sera gli confessò il suo amore ma lui la respinse dicendole che voleva in sposa sua figlia Maricchia. La Lupa se ne andò via con le mani nei capelli e non tornò da lui per due mesi. Ad ottobre la Lupa si presentò con la figlia da Nanni e li fece sposare. Offrì loro la sua casa a patto che le lasciassero un angolino per dormire. La Lupa aveva vicino a sé Nanni e lo importunava sempre. Egli le chiese più volte di non presentarsi al fienile, ma Nanni cedette ed ebbe una relazione con la Lupa. Maricchia lo venne a sapere e litigò con la madre dandole della ladra e le disse che se avesse continuato ad importunarlo sarebbe andata dal brigadiere, e così fece, e il brigadiere disse alla Lupa di lasciare la casa ma lei rifiutò perché la casa era la sua. Un giorno Nanni ricevette una pedata da un asino nel petto e rischiò la vita. Il sacerdote si rifiutò di confessarlo finché la Lupa fosse rimasta lì; solo quando la donna uscì di casa il sacerdote entrò per impartirgli i sacramenti. Se ne andò ma tutto tornò come prima e la Lupa continuava a perseguitarlo fino a che Nanni non minacciò di ucciderla. Un giorno, mentre Nanni zappava la vigna, vide la Lupa arrivare e, stanco della tentazione, prese la scure e si avvicinò ad essa.
Il marito di Elena è un romanzo di Giovanni Verga scritto nel 1881 e pubblicato a Milano, subito dopo i Malavoglia, nel 1882 dall'editore Treves. Nel romanzo vengono abbandonati gli elementi veristici e ripresi i precedenti temi di carattere romantico e passionale a sfondo psicologico. Come scrive Luigi Russo[1]"Malamente il romanzo è stato interpretato come il dramma di una Bovary verghiana: se il modello del grande artista francese è pur presente, l'interesse del Verga è per il dramma del "filius familias", che vede crollare un suo sogno di felicità domestica, a causa della vanità e della leggerezza della sua compagna." Cesare Dorello è un giovane buono e studioso (originario di Altavilla Silentina), rimasto orfano di padre, che studia legge all'università di Napoli con l'aiuto finanziario di don Anselmo, lo zio sacerdote. Cesare conosce Elena, figlia di don Liborio un ex cancelliere presso i Borboni, se ne innamora e, conseguita la laurea, inizia a frequentare la casa della giovane. Deciso a sposare Elena, chiede la sua mano ai genitori che però, vista la sua precaria situazione economica, si oppongono al matrimonio. I due giovani decidono quindi di fuggire ma, incontrate subito le prime difficoltà, si rifugiano per un po' di tempo presso la casa dello zio canonico e, dopo essersi sposati vanno a vivere nel paese natale di Cesare. Ma Elena, che ha un carattere frivolo e ambizioso, abituata com'era ad una vita mondana e raffinata, male si adatta alla vita modesta e provinciale che ora deve condurre e inizia a diventare irrequieta e depressa. La nascita di una bambina sembra ridarle per un po' di tempo la felicità, ma presto ritorna alle inquietudini di sempre. Cesare intanto riesce ad affermarsi come avvocato e così, grazie al miglioramento economico, i due sposi possono ritornare a Napoli ed Elena riesce a condurre la vita che desidera fatta di mondanità e lusso. In modo superficiale ella tradisce ripetutamente il marito che continua, malgrado tutto, ad amarla e non vuole perderla. Ma, dopo aver tentato inutilmente di far cambiare atteggiamento alla moglie, Cesare, sentendosi non più amato, in un momento di furore la uccide con un pugnale.
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I nuovi tartufi è una commedia scritta da Giovanni Verga nel 1865. Il manoscritto autografo riporta la data di stesura del 14 dicembre 1865.
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I Malavoglia è il romanzo più conosciuto dello scrittore siciliano Giovanni Verga, pubblicato a Milano dall'editore Treves nel 1881. Il romanzo narra la storia di una famiglia di pescatori che vive e lavora ad Aci Trezza, un piccolo paese siciliano nei pressi di Catania; i personaggi sono tutti uniti dalla stessa cultura ma divisi dalle loro diverse scelte di vita, soverchiate comunque da un destino ineluttabile.
Eva Eva è un romanzo di Giovanni Verga scritto e pubblicato nel 1873 a Milano dall'editore Treves. Avevo incontrato due volte quella donna - non era più bella di tutte le altre, né più elegante, ma non somigliava a nessun'altra. - Nei suoi occhi c'erano sguardi affascinanti, come il corruscare di un'esistenza procellosa che era pieno di attrattive. - Giovanni Verga, Eva Quello che rappresenta la novità del romanzo, apparso a Milano nel 1873, è il personaggio femminile che il Verga, come scrive Giovanni Croci, "disegna, mostrandosi già scrittore avveduto, con una scioltezza di tratto, con una asciuttezza e verità di toni davvero sorprendenti". Durante un veglione in maschera che si tiene a La Pergola di Firenze, un arlecchino, un povero pittore di nome Enrico Lanti arrivato dalla Sicilia per trovar fortuna, scommette con alcuni giovani che riuscirà a baciare una bella mascherina. Si reca in seguito sul palco e inizia a raccontare, ad un suo amico scrittore che ha incontrato casualmente, il suo amore per la maschera che vuole baciare. Si tratta di Eva che si guadagna la vita facendo la ballerina di lusso e della quale Enrico si è follemente innamorato. Eva lo ricambia pur continuando a condurre la sua vita spregiudicata. Quando però si rende conto che il giovane è tormentato dalla gelosia, decide di dividere con lui le privazioni e lasciare la sua vita. Ella si renderà però presto conto che, perduti gli splendori tra i quali Enrico l'ha conosciuta, ha perso per lui ogni attrazione e quindi, senza drammi ma con molto realismo, dopo avergli scritto una lettera equilibrata e lucida, lo lascia e ritorna alla vita di prima. "Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, sono degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo far del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire." Enrico, dopo i primi tempi di sofferenza, si riprende e presto riesce ad affermarsi come pittore ottenendo la gloria e l'agiatezza che desiderava. Il giovane viene così ripreso dal desiderio di riconquistare la donna ma non riesce perché Eva ha un amante. Enrico lo sfida a duello ferendolo e alla fine, nuovamente povero, ammalato di tubercolosi, piena la mente del ricordo della donna e infelice per il proprio fallimento, muore al suo paese nella casa paterna.
Eros Eros è un romanzo in cinquanta capitoli di Giovanni Verga pubblicato a Milano nel 1875 dall'editore Brigola. Il marchese Alberto Alberti, che dopo la morte dei genitori era stato affidato allo zio materno, termina ventenne il collegio Cicognini e va ad abitare, per un certo periodo, presso lo zio Bartolomeo Forlani a Belmonte in provincia di Pistoia. Con lo zio abita la figlia, Adele, una fanciulla dal carattere timido e molto dolce ed è ospite anche la bella e fatua contessina Velleda Manfredini. Alberto, che fin da quando era bambino era innamorato di Adele, non si accorge delle attenzioni esagerate che gli rivolge la contessina Velleda e, preso coraggio, dichiara il suo amore ad Adele e i due si fidanzano. Ma nel giro di poco tempo Alberto inizia a subire il fascino di Velleda e Adele, che se ne è accorta, si ammala e decide di sciogliere il fidanzamento per lasciarlo libero. Intanto Alberto si reca a Firenze e rivede Velleda che nel frattempo si era fidanzata. La convince a lasciare il fidanzato e inizia con lei una relazione. Ma a Firenze Alberto incontra anche la contessa Armandi, donna non più giovane ma ricca di fascino, e con lei stringe una forte amicizia. Ingelositosi per l'aperto corteggiamento fatto dal principe Metelliani alla sua fidanzata, egli si rende conto di essere troppo diverso da lei e decide di lasciarla. Alberto conosce una ballerina della Scala, di nome Selene, ed inizia con lei una relazione ma inizia anche a frequentare con assiduità l'abitazione della contessa Armandi e presto i due sono presi dalla passione. Il conte Armandi però li scopre e, pur perdonando la moglie, le ordina di partire. Alberto riprende, senza entusiasmo, la relazione con Selene. Dopo molti anni Alberto incontra nuovamente la cugina che non aveva mai smesso di amarlo e, ripreso dal vecchio amore, si dichiara e i due si sposano. Potrebbero essere felici ma Alberto, vedendo la gioiosa ingenuità di Adele, comincia a pensare con rammarico al suo passato tumultuoso e deludente e inizia a diventare cupo. Un giorno incontra Velleda, che ha sposato il principe Metelliani, e accetta di incontrarsi con lei. Adele però lo scopre e tra i due sposi inizia un periodo difficile che Alberto non sa affrontare e che lo spinge a partire per alcuni mesi. Adele, durante l'assenza di Alberto si ammala e viene confortata dall'amore rispettoso di Gemmati, un amico di Alberto. Quando però Alberto ritorna a casa e Adele si accorge che è rimasto turbato dal sentimento di Gemmati per lei, allontana con decisione l'amico. Ma Alberto non sa perdonare e risentito annuncia la sua partenza per un lungo viaggio. Adele si ammala e le sue condizioni sono gravi tanto da farne temere la morte. Alberto, avvertito delle gravi condizioni della moglie, ritorna subito a casa ma non può far altro che assistere alla sua morte. Disperato e resosi conto del vuoto che la morte di Adele aveva lasciato in lui e della vita insensata che aveva trascorso, prende la pistola e si uccide.
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Verga pubblicata per la prima volta nel 1880 e riedita in nuova versione definitiva nel 1897.La raccolta si compone di otto racconti scritti fra il 1878, anno in cui fu pubblicato Rosso Malpelo e il 1881, anno il cui fu pubblicata la seconda edizione contenente il racconto Il come, il quando ed il perché. Protagonisti dei racconti sono per lo più appartenenti alle classi sociali più umili della società siciliana.
Mastro-don Gesualdo è uno tra i più conosciuti romanzi di Giovanni Verga, pubblicato nel 1889. Narra la vicenda dell'omonimo protagonista, ed è ambientato a Vizzini, in Sicilia, nella prima metà dell'Ottocento in periodo risorgimentale. Secondo romanzo del ciclo dei vinti, è il frutto di un lungo lavoro preparatorio proseguito incessantemente per nove anni. I primi abbozzi risalgono al 1881-1882, subito dopo la pubblicazione de I Malavoglia. Mastro-don Gesualdo uscì a puntate sulla Nuova Antologia dal 1° luglio al 16 dicembre 1888, e poi in volume presso l'editore Treves, nel 1889, ma datato 1890. A differenza dei Malavoglia, Mastro-don Gesualdo fu accolto positivamente. L'operazione linguistica condotta dallo scrittore risulta in questo romanzo particolarmente complessa, a causa dell'eterogeneità delle classi sociali rappresentate, ognuna portatrice di un lessico proprio. L'elaborazione dell'opera è stata ricostruita filologicamente da Carla Riccardi, curatrice anche dell'Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Verga. La filologa ha accolto come definitivo il testo così come appare nel manoscritto inviato in tipografia, e lo ha corredato di un ricco apparato genetico nel quale sono però anche presenti alcune varianti evolutive.
Cavalleria Rusticana Cavalleria rusticana è una novella appartenente alla prima raccolta di novelle di Giovanni Verga intitolata Vita dei campi, pubblicata da Treves a Milano nel 1880. È una storia d'amore e di gelosie, ambientata in un paese siciliano, Vizzini, nel secondo Ottocento. La novella racconta la storia di Turiddu Macca, figlio di Nunzia, un bel giovane di famiglia povera appena tornato al paese natio dopo aver svolto il servizio militare. Turiddu si pavoneggia ogni domenica sfoggiando la divisa da bersagliere, ed in particolare il cappello della sua divisa diviene suo indumento abituale. Turiddu attira a sé gli sguardi curiosi e furbi dei monelli del paese e quelli di tutte le ragazze, che se lo mangiano con gli occhi. Il giovane ha però interesse solo per la bella Lola, figlia del massaio Angelo, suo interesse amoroso prima della leva. Turiddu viene a sapere che Lola si è fidanzata con compare Alfio, carrettiere di Licodia. Il giovane, dopo una serie di incontri con Lola, cerca di mettere una pietra sopra alla storia d'amore passata. Ma la gelosia riesplode dopo il matrimonio tra Lola e Alfio: Turiddu, ormai non più per amore ma per semplice ripicca, è deciso a possedere la donna. Inizia, così, a corteggiare Santa, la figlia del massaio Cola e dirimpettaia di Alfio e Lola. I due innamorati ogni sera trascorrono il tempo a chiacchierare e a dirsi parole dolci, "che tutto il vicinato non parlava d'altro". Turiddu raggiunge presto il suo obiettivo: Lola ascolta i due ogni sera, "nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa". Gelosissima, è la stessa donna a concedersi al giovane: i due ricominciano a salutarsi e a frequentarsi, ed alla fine Turiddu diviene l'amante di Lola. Quando Santa se ne accorse "gli batté la finestra sul muso", amareggiata e soprattutto molto arrabbiata. Si avvicina intanto la Pasqua e Lola, che ha sognato dell'uva nera, dice a Turiddu che vuole andare a confessarsi, dal momento che il marito è in giro con le mule per le fiere, e s'insospettirebbe se venisse a sapere che non l'ha fatto. Specialmente Lola è preoccupata per il sogno dell'uva che, secondo la mentalità locale siciliana, significa guai per il suo innamorato. Quando compare Alfio ritorna con tanti soldi e una bella veste nuova in regalo per la moglie, Santa gli rivela il tradimento di quest'ultima, per vendicarsi di Turiddu. Turiddu, che da quando era tornato il marito di Lola, "non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l'uggia all'osteria cogli amici", vede entrare compare Alfio che lo invita a trovarsi allo spuntare del sole sullo stradone per parlare "di quell'affare". I due si scambiano il "bacio della sfida". "Turiddu stringe fra i denti l'orecchio del carrettiere, e così fa la promessa solenne di non mancare". Il giorno dopo Turiddu dà l'addio a sua madre, mentre, contemporaneamente, Alfio lascia intendere quello che sta per succedere a Lola. I due si incontrano e, dopo aver percorso un tratto di strada insieme, danno il via al duello a colpi di pugnale, l'uno deciso ad ammazzare l'altro. Pare che Turiddu, sebbene ferito al braccio sinistro, abbia la meglio su Alfio. Ma il mulattiere acceca a tradimento l'avversario e lo finisce con una coltellata alla gola "senza dargli il tempo di proferire nemmeno: - Ah, mamma mia!" e con quella coltellata vendica non solo l'onore ma anche l'amore.
No, neanche la punta di un dito. Adesso è storia vecchia... e anche triste!... Non ci siamo neppur detto di amarci... quello che si chiama amare... Mi piaceva assai, ecco. Andavo da per tutto dove sapevo d'incontrarla, alla Villa, al Sannazzaro, al concerto serale dello Châlet. Mi sentivo battere il cuore e inciampavo nelle seggiole appena scorgevo da lontano i nastri rossi del suo cappellino. Mi rassegnavo al cipiglio e all'accoglienza glaciale del Comandante, solo per vedere i begli occhi grigi di lei che mi cercavano nella folla. Essa mi salutava con un sorriso appena accennato: sapete, quel sorriso che vedete soltanto voi, quella fiamma lieve e rapida che illumina a un tratto un bel v...
Eccovi una narrazione - sogno o storia poco importa - ma vera, com'è stata e come potrebbe essere, senza retorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualcosa di voi, che vi appartiene, che è frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia - voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell'applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l'ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto - tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche cosa. Però non maledite l'arte che è ...
Il Barone, dal viso bonario, un po' rustico, reso burbero dalle avversità, sta accendendo le candele della lumiera, salito su di una vecchia seggiola di cucina, in maniche di camicia, ma già in cravattone bianco per la cerimonia. La giubba, di taglio antico, come tutto il suo vestiario, è buttata sul canapè. Sidoro, insaccato in una vecchia livrea, coi calzoni lunghi color nocciola, raso di fresco,ma coi capelli irti ed indocili malgrado l'unto, più arcigno del solito in grazia della solennità, aiuta goffamente il padrone. Nardo e Luciano stanno a guardare dall'uscio in fondo, aspettando...
Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva;...
La corte di una vecchia casa. A destra la tromba del pozzo, a sinistra la porta di un magazzino, in fondo il portico e l'androne. Sotto il portico, a destra, l'uscio a vetri della portineria, a sinistra la scala, in mezzo il cancello dell'androne. Al di là del cancello, a destra, l'uscio per cui si entra in portineria, in fondo la porta che dà sulla strada. Sull'imbrunire. Nella via passa di tanto in tanto della gente, e cominciano ad accendere i lampioni. Si ode la Luisina strillare: Secolo! Pungolo! Corriere della sera! SCENA I Giuseppina e Luisina. GIUSEPPINA (attraversando il portico, dalla sinistra, e chiamando verso la portineria). Ehi, Màlia, è ora di accendere il gas. LUISINA...
Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Lico...
Dirò come mi sia pervenuta questa storia, che convenienze particolari mi obbligano a velare sotto la forma del romanzo. Verso la metà di novembre avevamo progettato una partita di campagna con Consoli e Pietro Abate. Il 14, con una bella giornata, noi eravamo sulla strada di Aci. Verso Cannizzaro un elegante calesse signorile oltrepassò la nostra modesta carrozza da nolo. Giammai si è tanto umiliati dal contrasto come in simili casi. Consoli, ch'era forse il più matto della compagnia, gridò al cocchiere: «Dieci lire se passi quel calesse!». Il cocchiere frustò a sangue le rozze, che cominciarono a correre disperatamente, facendoci sbalzare in modo da esser sicuri di ribaltare; e sicc...
FERDINANDO. La riverisco, cara signora Emilia. Buon giorno. Maria. EMILIA. Oh, ecco qui il Dottor Ferdinando che ci reca qualche notizia. Non sedete un momento? FERDINANDO. Cercavo il sig. Montalti. EMILIA. È uscito poco fa. FERDINANDO. Non per andare in piazza ad aspettare l'esito della votazione, ne sono sicuro! EMILIA. Oh, tutt'altro! È così agitato quel povero Prospero! Ma accordateci almeno cinque minuti (invitandolo a sedere sul canapé). Il caffé pel dottor Ferdinando, Maria! (siedono). MARIA. Subito, mamma (esce). EMILIA. A voi, sig. Ferdinando, che ci dite? FERDINANDO. Buone nuove, ottime nuove! Lodato sia il Signore! (inchinando il capo). EMILIA. Credete che riusciremo? ...
Don Candeloro era proprio artista nel suo genere: figlio di burattinai, nipote di burattinai - ché bisogna nascerci con quel bernoccolo - il suo pane, il suo amore, la sua gloria erano i burattini. - Non son chi sono se non arrivo a farli parlare! - diceva in certi momenti di vanagloria come ne abbiamo tutti, allorché gli applausi del pubblico gli andavano alla testa, e gli pareva di essere un dio, fra le nuvole del palcoscenico, reggendo i fili dei suoi ¿personaggi¿. Per essi non guardava a spesa. Li perfezionava, li vestiva sfarzosamente, aveva ideato delle teste che movevano occhi e bocca, studiava sugli autori la voce che avrebbe dovuto avere ciascuno di essi, Almansore o Astiladoro....
Nanni Lasca, da ragazzo, non si rammentava altro: suo padre, compare Cosimo, che tirava la fune della chiatta, sul Simeto, con Mangialerba, Ventura e l'Orbo; e lui a stendere la mano per riscuotere il pedaggio. Passavano carri, passavano vetturali, passava gente a piedi e a cavallo d'ogni paese, e se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume. Prima compare Cosimo aveva fatto il lettighiere. E Nanni aveva accompagnato il babbo nei suoi viaggi, per strade e sentieri, sempre coll'allegro scampanellìo delle mule negli orecchi. Ma una volta, la vigilia di Natale - giorno segnalato - tornato a Licodia colla lettiga vuota, compare Cosimo trovò al Biviere la notizia che sua moglie stava pe...
Camilla picchiò all'uscio, mentre i genitori stavano per andare a letto, e disse: - Elena è fuggita. Don Liborio rimase collo stivaletto in mano, sbalordito. Poscia andò ad aprire zoppicando, pallido come un morto. La figliuola, colla sua voce calma di ragazza clorotica, ripeté tranquillamente: - L'ho cercata dappertutto. Non c'è più. Allora la mamma si rizzò a sedere sul letto e cominciò a strillare: - M'hanno rubata mia figlia! m'hanno rubata mia figlia! - Taci! le disse suo marito. Non gridare così, ché i vicini sentono! Il pover'uomo, tutto sottosopra, ancora mezzo scalzo, colla camicia che gli si gonfiava al pari di una gobba fra la croce degli straccali, andò ad accendere un'a...
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